LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE, SE PENSI IN MODO COLLETTIVO"

creata il Primo Maggio 2013

 

 

Individuale e collettivo in psicanalisi

ovvero tra marginalizzazione e assimilazione.

Considerazioni sul popolo della psicanalisi.

 

Mi riesce sempre difficile comprendere (giustificare) come un ebreo del calibro di Freud, un uomo la cui religione (mai da Freud rinnegata) si basa su un dio pesantemente compromesso con il collettivo (dai tempi del patto con Abramo, che designò il popolo ebreo come popolo eletto, essedo inteso che il popolo eletto fu in realtà il popolo che elevò se stesso alla dignità divina), abbia potuto conferire alla psicanalisi il carattere individualistico di “pratica personale di vita”. Sia la pratica psicanalitica di vita, secondo Zaretsky, sia l’antropotecnica, secondo Sloterdijk, avrebbero dovuto acquisire nelle mani di un ebreo come Freud, originariamente e da subito, un carattere collettivo, inerente al “popolo della psicanalisi”. Invece, Freud fece di tutto per far passare la propria creazione intellettuale attraverso la porta obbligata (e stretta) della medicina, forzandola ad assumere un carattere individualistico: quello della cura psichica del singolo individuo nevrotico, ammalato di una malattia che la medicina stessa né riconosce né ammette nella propria nosografia. (Nelle ultime edizioni del DSM non compare l’isteria! Per la questione della medicalizzazione della vita psichica rimando alla pagina Le due medicine).

Cosa significa questa operazione conflittuale freudiana? Che il pregiudizio medico fu più forte del pregiudizio semita? Fino a costringere la medicina a riconoscere come medica la terapia psicanalitica in quanto terapia adatta a malattie non mediche? Fino a scotomizzare il carattere endemico delle nevrosi? Quando Freud scrisse Avvenire di un’illusione (1927, lo stesso anno della postfazione alla Questione dell'analisi laica), dimenticò forse che la religione è un evento sociale – è la prima forma di politica – prima che individuale? Impossibile, allora?

Non ho la risposta sicura a queste domande, ma posso circoscrivere il campo delle possibili risposte. La mia operazione analitica parte dal riesame dell’opera più ideologica – per non dire mitologica – di Freud: Totem e Tabu del 1912. Tutta l’opera ruota intorno alla concezione del padre, presentato come baricentro di quella costruzione mitica che è l’orda primitiva (Urhorde). Nel mito freudiano dell’orda primitiva il padre è a capo di un’organizzazione sociale di tipo monadico. Nulla dice Freud a proposito dell’interazione tra orde. L’orda non è elemento di una comunità perché non coopera con altre orde. L’orda è una monade, il cui Io – il padre – nasce e muore dentro di essa, senza interagire con altre individualità all’esterno di essa. L’orda non è neppure lei stessa una comunità. I membri dell’orda – i fratelli – non interagiscono tra di loro, non cooperano, almeno fino al momento in cui intraprendono l’opera comune, il parricidio. La miseria sociologica della teoria freudiana, che raggiunge il suo bottom in Psicologia delle masse e analisi dell’Io del 1921, dove la psicologia collettiva è ridotta a sottoprodotto di quella individuale, è tutta qui ed è – mi sembra – in antitesi con la posizione storica del popolo ebreo. Nell’orda freudiana, infatti, non esiste il collettivo; esiste solo l’individuale – il padre – e il collettivo – i fratelli – formano un individuale allargato, essendo tutti identificati con il padre, quindi tutti simbolicamente uguali a lui. Si tratta di una struttura sociologica molto povera, per non dire misera. Tanto ci si poteva aspettare da un ebreo?

In realtà, non va dimenticato che il popolo ebreo ha attraversato la storia dell’Occidente come una monade, che non ha mai collaborato con altri popoli. Si è disperso tra i popoli mantenendo la propria individualità identificatoria di eletto da Dio. C’è nella cultura ebraica un individualismo collettivo, se così si può dire, che appiattisce sull’individuale, inteso come eccezionale, la dimensione collettiva. Questo carattere ebraico si ripropose quasi esattamente nel mito freudiano dell’orda primitiva. Fu l’amico-nemico di Freud, Jung, a sollevare il problema dell’individuazione, da intendere come rapporto problematico tra individuale e collettivo, conservando entrambi i termini e non privilegiandone uno rispetto all’altro. Ma il freudismo non raccolse la proposta.

Perché?

Oggi, dopo l’attenta rilettura di Totem e Tabu (1912), riesco a congetturare la risposta. Con una certa probabilità di non sbagliarmi del tutto posso tentare di spiegare perché Freud non ebbe accesso alla dimensione collettiva.

La precondizione intellettuale per affrontare in modo scientifico la dimensione collettiva è disporre della nozione di variabilità statistica. Qualsiasi popolazione biologica è sempre una popolazione variabile, cioè formata da individui diversi per qualche carattere e con livelli diversi dello stesso carattere (variabile esso stesso). Freud fu medico a tutti gli effetti; non aveva perciò dimestichezza con la variabilità. La medicina di tutti i tempi è l’arte di curare il singolo, che è identico a se stesso e non varia. In particolare, la medicina dei tempi di Freud possedeva sì la nozione di casistica, cioè di una serie di casi tutti uguali, portati a sostegno di qualche ipotesi (di solito eziologica), ma non possedeva la nozione scientifica di variabilità statistica. Era una medicina individuale, non sociale, quella su cui Freud si era formato.

Per contro, l’approccio darwiniano alla realtà biologica è sin dalle sue prime mosse popolazionale: presuppone in linea di principio la variabilità statistica della popolazione, ammettendo che ogni generazione successiva rappresenti una discendenza con (piccola) variazione rispetto alla generazione precedente. La stessa selezione naturale agisce nella e sulla popolazione solo se dispone di un campo di variabilità entro cui scegliere le varianti che si dimostreranno (a posteriori!) più adatte all’ambiente, cioè saranno capaci di generare una prole più numerosa di altre varianti meno adattate all’ambiente e quindi riusciranno ad affermarsi come specie autonoma.

Freud non poteva e non sapeva ragionare in termini darwiniani per due ragioni; primo, perché era medico; il medico freudiano trattava il caso singolo, per definizione a variabilità zero; secondo, perché Freud era lamarckiano (senza mai dichiararlo), avendo bisogno di postulare nella sua dottrina l’eredità dei caratteri acquisiti per giustificare la presenza di tratti psichici come “eredità arcaica”. I due tratti – medico e lamarckiano – confluirono in Freud in una rigida mentalità eziologica, che credeva di spiegare scientificamente i fenomeni attribuendo ad essi una causa specifica. In realtà, l’opzione epistemologica freudiana, lo scire per causas, era la forma antica (pregalileiana) di conoscenza, basata sul principio di ragion sufficiente, sulla cui validità l’uomo di scienza moderno nutre qualche perplessità, preferendo decisamente lo scire per theoremata.

Oggi la contrapposizione tra Darwin e Lamarck va attenuandosi, sia perché vanno sempre più affermandosi considerazioni epigenetiche, relative all’azione dell’ambiente sull’espressione dei geni, sia perché vanno sempre meglio configurandosi le interazioni multilivello tra selezione individuale, a livello di genotipo, e selezione di gruppo, a livello di fenotipo; per merito di scienziati come il mirmecologo E.O. Wilson, fondatore della sociobiologia, e del genetista di popolazioni L.L. Cavalli Sforza, è stato gettato un ponte tra genetica e cultura; si ammette, cioè, la possibilità che a volte la selezione individuale rinforzi quella di gruppo (interazione positiva) ma che più spesso la seconda inibisca la prima (interazione negativa), quando porta il singolo individuo a sacrificare il proprio patrimonio genetico individuale a vantaggio del patrimonio genetico di gruppo; il risultato è che nella popolazione, formata da gruppi diversi di individui diversi, si stabiliscono equilibri instabili e oscillanti, pronti a evolvere in un senso o nell’altro per variazioni ambientali minime (principio di caos).

Ma in Totem e Tabu Freud si dimostra sordo al pensiero darwiniano e cieco di fronte alle sue innumerevoli possibilità di spiegazione scientifica. Comincia fraintendendo il significato delle small communities di cui parla Darwin in Descent of Man (1871, cap. XX); le interpreta come “orde primitive” (Urhorde). Addirittura parla di “orde primitive darwiniane” (Darwinsche Urhorde). Ma c’è una bella differenza tra orda e comunità: l’orda è omogenea, la comunità è variabile; l’orda prevede la soggezione di tutti all’uno; nell’orda tutti sono uguali sotto l’uno a cui sono asserviti; volendo fare un paragone biologico, l’orda è come l’alveare dove tutte le api operaie sono a servizio dell’ape regina. La comunità umana, invece, nasce dalla variabilità; prevede la collaborazione tra diversi e la divisione del lavoro tra le diverse componenti. Una bella confusione quella di Freud, che sicuramente Darwin non avrebbe apprezzato. (Ancor meno avrebbe apprezzato il tentativo maldestro di Freud di sfruttare l’autorità di Darwin per avallare le proprie mitologie personali). Ma tant’è, Freud mancava della nozione di variabilità e non poteva cogliere la differenza tra orda e comunità.

L’incomprensione freudiana di Darwin procedette applicando sistematicamente il principio eziologico (o di ragion sufficiente); andando disperatamente alla ricerca di cause per spiegare i fenomeni osservati, Freud si spinse fino ad affermare che il totemismo, imponendo la legge di interdizione dell’incesto, è la ragione sociale del fenomeno esogamico. Non gli venne mai in mente il sospetto che potesse essere viceversa, per esempio, che l’apparente effetto (l’esogamia) fosse la vera causa della supposta causa (il totemismo).

Così, sulla base di certe considerazioni di Frazer, un antropologo da tavolino che non fece mai ricerche sul campo, Freud contestò le osservazioni empiriche di Westermarck, secondo cui il desiderio sessuale tra individui cresciuti insieme nella stessa famiglia sarebbe più debole del desiderio sessuale tra individui di famiglie diverse. Freud non riuscì a concepire la possibilità che la selezione individuale porti automaticamente – cioè senza una causa ad hoc – all’estinzione dell’endogamia. In effetti, l’endogamia produce una prole debole (per la manifestazione di geni patogeni recessivi), incapace a sua volta di riprodursi; quindi, Freud non arrivò a riconoscere nell’endogamia un’opzione biologica destinata a decadere spontaneamente. (1) Non occorrono cause ad hoc per spiegarla, come l’interdizione dell’incesto; non occorre neppure che l’individuo conosca l’eugenetica. Negli scimpanzé grandi e piccoli, i giovani abbandonano spontaneamente le famiglie di origine per accoppiarsi in altre famiglie, senza che nessuna legge “sociale” forzi questo comportamento. (Nei grandi scimpanzé emigrano i maschi, nei piccoli scimpanzé le femmine). Ma, sulle orme di Frazer, Freud richiedeva una causa che “salvasse i fenomeni” e ideologicamente si chiedeva: “Come può esserci una legge che vieta l’incesto, se non c’è istinto incestuoso?”. Per la mentalità eziologica l’istinto incestuoso sarebbe la causa formale – una mera idea platonica – dell’interdizione culturale dell’incesto e del suo relativo orrore.

Oggi, invece, si ammette che l’interdizione dell’incesto abbia poco o nulla a che fare con l’orrore istintuale, ma sia un portato della selezione culturale di gruppo. La legge culturale che vieta l’incesto induce nell’individuo un desiderio immaginario per i propri familiari attraverso lo stimolo della trasgressione; alla lunga il risultato è che la famiglia risulta più coesa. La coesione familiare è essenziale alla sopravvivenza del genere Homo, nelle cui famiglie nasce una prole neotenica, molto immatura e bisognosa per lungo tempo di cure parentali per svilupparsi fino alla maturità. Sul medio e lungo periodo, quindi, sopravvivono meglio e proliferano di più i gruppi dove vige la legge di interdizione dell’incesto, che rende la famiglia coesa e durevole, a patto naturalmente che l’incesto non sia consumato.

In ultima analisi, un mix di fattori hanno condizionato i rapporti della psicanalisi con la cultura dominante a cavallo del XIX e XX secolo, orientandola verso una “pratica personale di vita” (secondo Zaretsky), una pratica ambigua, a metà tra l’individuale e il similcollettivo, oscillante tra assimilazione e marginalità (ancora secondo Zaretsky); tra questi fattori annovero a livello teorico: l’ignoranza delle acquisizioni scientifiche (Freud ignorò la riscoperta delle leggi di Mendel avvenuta all’inizio del XX secolo), la mentalità medica basata sulla predominanza della relazione di causa ed effetto (senza contare che spesso tale mentalità inverte erroneamente la causa con l’effetto); la mancata comprensione della variabilità nelle popolazioni biologiche; a livello pratico, invece, giocarono un ruolo prevalente le considerazioni di mercato, che ai primi e sparuti psicanalisti imponevano di vendere la psicanalisi sul mercato della cura come psicoterapia medica individuale delle devianze mentali.

Così Freud finì per non dimostrarsi all’altezza della propria origine semitica. L’ariano e cristiano Jung dimostrò di avere un’intelligenza del collettivo superiore all’ebreo. Purtroppo commisero entrambi lo stesso peccato mortale: trattare la psicologia come variante della mitologia.

“Di tal genere, se non tali appunto,” dovrebbero essere i pensieri dei pellegrini della psicanalisi, i quali dovrebbero avere a cuore non solo lo sviluppo scientifico della loro disciplina, ma anche la di lei affermazione sociale e politica, che da quello strettamente dipende. Oltre alle ragioni di eleganza teorica (la metapsicologia freudiana è un coacervo inelegante di ipotesi ad hoc, che a stento si può chiamare teoria, una volta consolidato come catechismo dottrinario (2)), dovrebbe valere una ragione strettamente politica, che anche Freud comprenderebbe: l’opportunità di liberare la psicanalisi dall’abbraccio mortifero della medicina, che non è scienza ma tecnica (3). Avviare la trasformazione della psicanalisi in scienza mi sembra una condizione preliminare per riuscire a farle attraversare lo stretto passaggio tra marginalità e assimilazione, di cui parla ancora Zaretsky nel suo ponderoso libro, I segreti dell’anima. Una storia sociale culturale della psicoanalisi (2004), consentendo al tempo stesso di avviare la dialettica tra individuazione e collettivizzazione. Senza l’apporto della scienza – quale scienza e quale apporto resta tuttora da stabilire – la psicanalisi resterà o una pratica marginale per pochi eletti carismatici, in nome dell’individuazione, o una pratica psicoterapeutica conformistica a servizio dei padroni, in nome della collettivizzazione e della massificazione.

Sfiorando appena l’analisi dettagliata della non esaltante realtà attuale, si verifica facilmente che la galassia psicanalitica è costituita, come in parte preconizzato e temuto da Freud, da “orde psicanalitiche” NON LAICHE (3), cioè da monadi che non collaborano né tra di loro né prevedono la collaborazione al loro interno, essendo strutturate in modo rigidamente gerarchico, con un capo indiscusso, dei presbiteri e dei catecumeni in attesa di conformazione agli ideali del maestro.

Come scongelare questa situazione di stallo, per non dire di paralisi? A me sembra che la via scientifica, essendo il discorso scientifico un discorso non dogmatico e senza maestri, possa essere una via praticabile per dissociare la psicanalisi sia dall’individualismo sia dal collettivismo, mantenendo al contempo una relazione produttiva tra individuale e collettivo. Allora, se sarà scientifica, la psicanalisi sarà alla portata di tutti; non sarà né massificata né ridotta a pratica solipsistica – la follia a due tra analizzante e analista, magari autorizzata da qualche dottrina di scuola.

La mia convinzione personale è che la promozione della scientificità corra parallelamente alla promozione della dimensione collettiva: non si fa scienza da soli. E, se cè collettivo, cè creatività. Lacquisizione del fuoco, un milione di anni fa, fu uninvenzione collettiva di Homo erectus, molto prima di Homo sapiens, che produsse uno scatto in avanti della civiltà. "Non è questione di intelligenza, ma di ricchezza di rapporti", sostiene il genetista Mark dell'University College di Londra. Quando la psicanalisi darà ascolto a queste parole e farà un simile scatto collettivo, uscendo dallassetto monadico delle sette psicanalitiche?

Note

(1) Per il soggetto della conoscenza eziologica non esistono fenomeni spontanei. Lo scire per causas è la ricerca coatta di cause che spieghino tutto, perché tutto ha una causa (principio di ragion sufficiente). (Torna su)

(2) Max Schur, il medico personale di Freud, riteneva che supporre una pulsione di morte per spiegare la coazione a ripetere fosse un’ipotesi ad hoc. In realtà, è un’ipotesi inutile. Infatti, qualunque meccanismo con un numero finito di stati, prima o poi, incorre in uno stato visitato in precedenza e da allora si ripete “spontaneamente” (vedi nota 1). Freud era consapevole che molte sue congetture era adhoccherie, come argutamente le avrebbe chiamate Quine. Da empirista qual era, Freud si giustificava dicendo che erano dedotte via via dall’esperienza, non sapendo che l’esperienza può solo confutare una congettura, non confermarla; tanto meno si può indurre una teoria dai dati empirici. (Torna su)

(3) Freud temeva la medicalizzazione della psicanalisi. Nella postfazione alla Questione dell’analisi laica del 1927 dichiarava di volersi mettere al riparo dall’eventualità che la terapia (medica) uccidesse la scienza (psicanalitica). Rimase inascoltato dai suoi proseliti, soprattutto da quelli anglosassoni; fece un buco nell’acqua (ein Schlag ins Wasser, furono le sue ultime parole famose), anche perché non si rese mai bene conto del pericolo più grave che incombeva a monte della medicalizzazione. Era la struttura di orda delle associazioni psicanalitiche a compromettere definitivamente la scientificità della psicanalisi; è stato il legame sociale selvaggio tra chi si interessa di psicanalisi – analisti, analizzanti e tutti gli altri a vario titolo – a inibire lo sviluppo della scientificità della psicanalisi. La ragione ce l’ha spiegata Ludwik Fleck: il pensiero scientifico non sopravvive in collettivi barbari (religiosi), dove domina l’ortodossia imposta dall’Uno. (Curiosamente, nel sottotitolo di Totem e Tabu Freud accenna a certe coincidenze tra “selvaggi” e “nevrotici”). Ma là dove non c’è scienza il destino è segnato: o marginalità o assimilazione, nonostante i piagnistei di chi vuol difendera la psicanalisi pubblicando con velleitari manifesti.

Forse si può spingere l’analisi un piccolo passo in avanti e supporre che sia stata proprio la struttura di orda dell’originario collettivo psicanalitico (La società del mercoledì), con Freud in posizione di padre primordiale (Urvater) e tutti gli altri in posizione di fratelli, a favorire la medicalizzazione della psicanalisi; la medicalizzazione stessa sarebbe stata funzionale al mantenimento dell’orda. Infatti, non essendo scienza, quindi mancando di strumenti autocritici (non esiste, per esempio, in medicina una critica rigorosa del principio eziologico), l'assetto medico ha portato a configurare la teoria psicanalitica come dottrina incontrovertibile, per l’impossibilità strutturale di criticarla; quindi, la medicalizzazione metteva l’orda primitiva al riparo da confutazioni di principio. Purtroppo non la mise al riparo da contestazioni personali di fatto e da tutte le successive eresie e defezioni che hanno costellato il cosiddetto movimento psicanalitico. (Torna su)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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